Ricomincio da qui, da un pensiero di getto, che non voglio nemmeno a stare troppo a "comporre", ma che voglio segnarmi, perché è solo ciò che emerge dalla superficie dell'acqua che salta agli occhi.
Nella mia vita in questo momento c'è spazio, il tempo dell'essere mamma con tutta me stessa è già passato, sempre di più mi rendo conto che la vita che ho dato alla luce è altro da me, che ha una dimensione propria, che sempre più va verso una forma di autonomia, e che un giorno aprirò gli occhi e lei mi chiederà le chiavi di casa, ritarderà sull'orario concordato e sbufferà quando tenterò di sgridarla.
Certo, lo so, adesso ha appena 6 anni (anzi, nemmeno ancora compiuti) ma sempre più mi è chiaro che la direzione è quella, e che io posso e devo cercare una dimensione mia, che vada a riequilibrare questa nostra relazione.
Ora, l'osservazione è questa: nel cercare questa mia nuova personalissima dimensione, mi sono accorta a un certo punto che stavo vivendo in uno stato di perenne aspettativa, in cui mancava totalmente la disponibilità a cogliere le cose, perché tutto ciò che vivevo era intriso di una proiezione immaginativa, che non lasciava spazio all'ascolto; e quindi mi sono chiesta uno spostamento, dall'aspettativa all'attesa.
Sembra un gioco di parole, ma non lo è, è proprio uno stato interiore diverso: nell'attesa c'è osservazione, c'è spazio per comprendere e per imparare da ciò che si vede. Non è che nell'attesa manchino le ansie, o i facili scivoloni verso l'aspettativa, ma anche quelli diventano, con il richiamo all'attesa, una fonte di osservazione, da cui ripartire per capire, per capirsi, per rilanciare, per imparare dagli errori.